3 Luglio 2024
Ci sono storie, fatti e piccole notizie che si raccontano e condividono con piacere e molto orgoglio. Oggi è uno di quei giorni. È arrivato per noi il momento di raccontare uno di quei casi straordinari in cui l’impegno e l’amore riescono a realizzare un piccolo, grande miracolo.
Per raccontarlo, ci affidiamo al racconto che la nostra Giaia Sacchi, autrice del miracolo, ha rilasciato alla giornalista Elena Tebano e pubblicato su “La 27 Ora” del Corriere della Sera.
La storia è un esempio di solidarietà, amore e speranza che ci ricorda quanto possiamo fare quando ci uniamo per una causa comune.
La famiglia afghana salvata dall’associazione dei genitori lgbtq+
Quando ha incontrato Abdul e la sua famiglia, il 21 giugno, Gaia Sacchi ha pianto («ho continuato per due giorni», dice) e ha ballato e cantato in mezzo a loro, in un hangar spoglio di Fiumicino sorprendentemente pieno di gioia. «Mi ero immaginata il nostro incontro tante volte nei mesi precedenti: avevo voglia di abbracciarli e mi chiedevo se a loro avrebbe dato fastidio. E invece quando ci hanno visto ci hanno abbracciato loro. Allora mi sono detta: non c’è proprio bisogno di parlare la stessa lingua». Quell’abbraccio univa due mondi lontanissimi, che hanno saputo trovarsi contro ogni probabilità: Abdul, sua moglie e i loro 4 figli arrivavano dal Pakistan e ancora prima dall’Afghanistan. Facevano parte di un gruppo di richiedenti asilo afghani, atterrato a Roma dopo molte peripezie ed esploso in una festa spontanea appena toccato il suolo italiano. Gaia, 42 anni, di Milano, era lì con la bandiera di Rete Genitori Rainbow, l’associazione che riunisce le persone lgbtq+ che hanno avuto figli da precedenti relazioni eterosessuali, di cui fa parte. Insieme a lei per prendere Abdul e la sua famiglia c’erano altre due socie dell’associazione, Valentina Violino e Roberta Martini, torinesi, che sono una coppia da vent’anni. Perché è proprio a Genitori Rainbow che, nella primavera dell’anno scorso, Abdul aveva scritto per chiedere aiuto.
«“Safe my life” c’era scritto nella mail arrivata alla segreteria — racconta Gaia —. Non ho risposto subito, diffidavo di una richiesta di aiuto dietro a cui si sarebbe potuto celare chiunque. Però non sono neanche riuscita ad ignorarla: così asciutta, diretta e disperata. E allora ho risposto, cercando di capire meglio la situazione per indirizzarlo verso qualcuno che avesse le competenze per aiutarlo. La comunicazione era difficoltosa, all’inizio sempre via mail perché Abdul non aveva il cellulare». Viveva nascosto in Afghanistan con la moglie, le figlie e il figlio, minacciato di morte dai talebani perché aveva lavorato per delle organizzazioni americane che si occupavano di diritti civili, in particolare delle donne. «Aveva visto uccidere molti suoi colleghi, anche loro abbandonati al loro destino dopo che gli americani hanno lasciato il Paese, nel 2021. Disperato, aveva iniziato a scrivere a tutte le associazioni lgbtq+ d’Europa» spiega Gaia.
Lei in quel periodo era in un suo personale momento di cambiamento. «Ero in Erasmus, in Turchia: mi sono messa a studiare psicologia all’università a quarant’anni, per fare quello che non ho potuto fare a venti perché ho avuto mio figlio che ero giovanissima». Suo figlio era grande, lei era rimasta senza lavoro dopo decenni in una cooperativa sociale che si occupava di bambini autistici e aveva deciso di darsi una seconda possibilità. Ha dato una seconda possibilità anche ad Abdul. «Nessuna delle associazioni a cui lo avevo indirizzato lo ha aiutato: alcune lo hanno ignorato, altre non gli hanno lasciato speranze. Allora mi sono messa a studiare la legge sui rifugiati e ho iniziato io a cercare aiuto. Ho capito che non era per niente semplice, ma che loro avevano le caratteristiche per rientrare nei corridoi umanitari». Cioè il programma per trasferire in Italia persone che si trovano all’estero e sono perseguitate per motivi religiosi, politici, etnici o di genere.
Sono quattro o cinque le associazioni italiane che gestiscono i corridoi umanitari in accordo col governo. Gaia ha bussato alla porta di tutte. «Il problema è che hanno liste d’attesa lunghissime, con gente che deve nascondersi perché nel frattempo in Pakistan gli è scaduto il permesso di soggiorno umanitario e ha paura di essere rimandata in Afghanistan dove verrebbe uccisa — dice —. Alla fine Mediterranean Hope delle Chiese Evangeliche ha accettato di aiutarmi, spiegandomi però che loro potevano portare la famiglia di Abdul in Italia ma io avrei dovuto farmene carico una volta arrivati qua». Il programma dei corridoi umanitari infatti prevede che, una volta arrivati in Italia, i richiedenti asilo politico non possano gravare sui conti dello Stato, ma vengano mantenuti da chi li ha fatti arrivare, almeno fino a quando non hanno il riconoscimento dello status di rifugiati e possono iniziare a lavorare. Gaia in altre parole doveva trovargli vitto e alloggio per almeno un anno.
«Era un’altra mission impossible. Io avevo la presunzione di trovare una soluzione perché ho lavorato tanti anni nel sociale. Ma anche in questo caso è stato più difficile di quanto pensassi. Non ho dormito la notte per mesi perché temevo di dover dire di no agli afghani. È passato tutto l’inverno, ma alla fine una persona che conosco mi ha messo in contatto con Ugo Biggeri e la sua Aia santa. È stata la svolta». Biggeri è l’ex presidente e uno dei fondatori di Banca Etica. All’Aia santa, un podere a Vicchio, nel Mugello, ha dato vita a un progetto di vita comunitaria che coinvolge quattro famiglie: vivono nella stessa struttura mangiando insieme ogni sera e fanno accoglienza a lungo termine per minori in affido e migranti. Spesso ospitano per brevi periodi anche gruppi scout e volontari. A coprire le prime spese ci avrebbero pensato le donazioni di Genitori Rainbow e Il cuore nel mondo, un’altra associazione di volontariato di cui fa parte Gaia. A quel punto è potuta partire la pratica per far arrivare Abdul e la sua famiglia in Italia.
L’abbraccio nell’hangar di Fiumicino è nato così. È solo un inizio: il resto è ancora tutto da costruire. Il 21 giugno Gaia, Valentina, Roberta, Abdul e la sua famiglia hanno lasciato l’aeroporto a notte fonda. Durante il viaggio fino a Vicchio si sono raccontati tutte le loro vite (Abdul parla inglese molto bene): «Ci ha detto che le persone lgbtq+ in Afghanistan sono invisibili, perché se le vedono le uccidono. Quando gli ho raccontato che non ero sempre stata lesbica, ma che mi sono innamorata di una donna quando stavo con un uomo ed ero incinta di mio figlio, è rimasto turbato. Mi ha detto che da loro si fa di tutto per tenere unite le famiglie — dice Gaia —. Ho visto la sua difficoltà a comprendere una donna che ha divorziato e mi sono chiesta come sarà la sua vita qui. Non ho una risposta. Ma so che dobbiamo ancora conoscerci e possiamo imparare a volerci bene per ciò che siamo».
Per l’articolo originale: https://27esimaora.corriere.it/24_luglio_03/famiglia-afghana-salvata-associazione-genitori-lgbtq-4821fb92-3906-11ef-bb0d-3d9559fcd6b4.shtml