9 Maggio 2020
Sono seduto da solo in un bar, a prendere un caffè… mi rilasso. Ognuno ha i suoi piccoli “rituali” quotidiani, un momento intimo per lasciar volare in libertà i propri pensieri. Con sguardo curioso osservo la gente che passa e penso: “Chissà che storie e che destini si nascondono dietro questi volti”. Inevitabilmente i miei pensieri passano in rassegna quello che è la mia storia o almeno quella degli ultimi anni.
Cresco in una regione forte di tradizioni e sono stato educato di seguito: “La famiglia al di sopra di tutto”. Marito, moglie, figli, lavoro e tutto il resto fuori da questo semplice concetto già visto con sospetto, con diffidenza, come “non normale” (o forse meglio diverso – nel senso negativo). E certamente parlare di concetti è troppo riduttivo. Il fatto è che questo l’ho vissuto così nella mia infanzia: mio padre che andava a lavorare, mia madre che si occupava della educazione dei figli nonché di tutte le questioni domestiche. Ed essendo il “maschio” della famiglia non ho mai avuto né dubbi né necessità di mettere questo sistema in discussione.
Così come non ho messo mai in discussione la mia identità sessuale. Certo, vero, al contrario di tanti ma non di tutti da ragazzo mi sono ritrovato a masturbarmi con un mio amico, e non solo in un’unica occasione e tra l’altro anche proprio insieme, ma nello stesso tempo ebbi anche le mie prime fidanzatine. Non ne ho mai fatto gran storia. Tanto meno domandarmi se ero etero, bi o gay per questo. Stavo semplicemente esplorando la mia sessualità. E nel contesto di allora secondo me ci stava e non ho mai approfondito. Nonostante la mia indole timida comunque e come tanti altri ragazzi coetanei: la “compa” era importante. La voglia di vivere e divertirsi era all’ordine del giorno, anzi di ogni giorno. Ero uno dei ragazzi del muretto insomma…
Grazie al classico “colpo di fulmine” il tutto andò in secondo piano, o meglio ancora nella categoria degli aneddoti da raccontare da pensionato, da nonno ai propri nipotini, con una vita degna di essere vissuta alle spalle. Il colpo di fulmine (ovviamente) era una donna. Me ne innamorai follemente. C’era subito intesa e forte attrazione; e dopo un paio di mesi decido di fare un passo in avanti. Ne ero sicuro: lei era quella “giusta” e io mi sentivo pronto condividere insieme a lei un progetto di vita. Dopo una iniziale e intensa frequentazione andiamo a vivere insieme. Il resto è storia: seguono quasi venti anni di vita di coppia incoronati dalla nascita di nostro figlio. Inutile negare: come in tante altre coppie c’erano alti e bassi, ma proprio questo ci fece essere ancora più compatti e uniti. Marito e padre presente e premuroso, in carriera.
Il mio mondo era perfetto…forse pure troppo….
Solo adesso, vedendo il tutto da una prospettiva più distaccata e a distanza di tempo, mi rendo conto che “il tutto” doveva proprio prendere la piega che ha preso. Non lo dico con rammarico o pentimento, ma una nota triste c’è comunque: quando una relazione va in crisi e finisce, quando l’amore si spegne non è mai bello e sfido chiunque a dimostrare il contrario. Non ci sono vincitori, ma solo sconfitti!
Sta di fatto che proprio pochi anni prima della nascita di mio figlio ho subito delle perdite affettive; il trauma di aver perso improvvisamente una persona che per me era diventata un riferimento, una importante figura parterna. Il colpo era tosto, ma la vita va avanti e lo incasso come se fosse niente. Ero stato educato a nascondere i miei sentimenti ed emozioni. Tanto vero che alcune volte pure i miei amici mi davano scherzosamente della “roccia”. Ma la roccia si stava sgretolando. Si era staccato un primo pezzo senza che io volessi accorgermene. E poi in seguito mi è proprio partito una valanga: preoccupazioni per la salute dei propri genitori, continui viaggi e trasferte per lavoro e annesse situazioni di “stress” lavorativo, un improvviso problema economico, le prime tensioni in casa con la moglie, la paternità. Mi vedevo in mezzo a una tempesta di situazioni, dove mi sentivo responsabile e chiamato direttamente in causa.
Arrivai a essere disperato come un pompiere, che corre a spegnere incendi, uno dopo l’altro, senza sosta: c’era il marito, il padre, il professionista, ma l’IO non c’era! Non che me ne pentivo, ma alla fine della giornata mi sentivo così: un automa programmato a eseguire i comandi altrui. Già, perché per amore e passione si fanno tante cose, ma quando qualsiasi gesto, qualsiasi sforzo è dato per scontato questo non va bene. Inconsciamente il mio io si stava già ribellando, sopratutto in famiglia. Non ero felice, non mi sentivo “vivo”: si fa largo una strana e intangibile sensazione: un tassello che è fuori posto… questo sentirmi portò anche a litigi sempre più frequenti con mia moglie. E poi… il momento cruciale, quello che mi cambiò la vita e alla fine fece trovare me stesso…o meglio quel pezzo del puzzle caduto tanto tempo fà sotto il tavolo: dimenticato e mai raccolto.
Era una sera qualsiasi, in un bar qualsiasi, io davanti a una birra: principalmente per fatti miei, da solo, per sbollire l’ennesimo diverbio con mia moglie. Per puro caso incomincio a chiacchierare con un ragazzo, arrivato poco dopo di me e sedutosi al tavolo accanto. Di vista ci si conosceva, sapevo pure che era gay. “Certe voci” insomma corrono. Ma io sinceramente zero problemi a parlare con lui. E mentre parliamo mi accorgo che rimango sempre più affascinato la lui: era spigliato, simpatico e riuscì nonostante il mio broncio a farmi ridere e sorridere con i suoi racconti del tutto normali, quasi banali e sicuramente non nel mio personale schema di un uomo gay “imparato” dalla TV, come quel stangone visto in qualche sit-com americana, vestito di camicia bianca a pois rosa e pantaloni stretti fucsia che gesticolando, starnazzando con battute pungenti porta alla disperazione le sue amiche per il divertimento degli spettatori. Ma io non ero nella sit-com e lui non aveva nessuna pochette d’oro D&G incastrata sotto l’ascella.
Era lontano da questa mia visione. E io mi sentivo attratto: non mi davano fastidio certi suoi sguardi e neanche il contatto fisico nascosto in mezzo al gesticolare che accompagna le parole e risate. Scontato o no: il tutto non finì con una semplice chiacchierata al bar e con un “Ciao, grazie alla prossima!”, ma con me che un certo punto esco da casa sua, dopo aver trascorso un paio di ore inaspettatamente intense e passionali con lui sotto le lenzuola, raccomandandogli con evidente imbarazzo: “Ehi! Acqua in bocca! Tu sai già che sono sposato che ho famiglia”.
Tornando a casa cercai di capire come mai mi era successo proprio così e proprio in questo momento. La cosa mi dava gran mal di testa, anche perché quanto provato per la prima volta nella mia vita mi aveva dato quel senso di aver fatto una cosa del tutto naturale e spontanea. In poche parole: “Stavo bene”, anche se solo per un momento. Continuai a cercarlo. Non so come spiegare. I momenti con lui… era come stare nell’occhio di un ciclone: è risaputo, li non si muove una foglia, li splende il sole. E quello che inizialmente per me poteva essere un modo di “evadere”, assecondare una mia fantasia, una trasgressione diventò qualcosa di più rilevante. Qualcosa oltre il solo sesso. C’era intesa, punti in comune, visioni condivise. E c’era qualcosa che mi stava succedendo. Qualcosa che volevo capire sopratutto e forse per la prima volta in vita mia per me stesso: mi stavo innamorando di un uomo!
Emotivamente era come andare sulle montagne russe: lui mi fece bene, mi fece male…non tanto per quello che stava succedendo tra noi, ma perche io mi sentivo diviso tra due realtà ben diverse e distinte: marito in una casa, e non si sa che cosa nell’altra. Un certo momento avevamo anche sognato una vita sotto lo stesso tetto. Ma in onestà anche lui intuii la mia difficoltà.
“Io so che sei gay. Ma tu?” mi salutò con queste parole. Dovette trasferirsi in un’altra città per motivi di lavoro. Più che un saluto era poi un addio: dopo quella volta non ci siamo mai più rivisti né sentiti. Non posso capire, ma solo immaginare: tra i due e in quel momento ero io quello “incasinato” sentimentalmente o forse lui ha voluto chiudere per semplice istinto di protezione, per non soffrire. Ognuno ha i suoi spettri: forse l’idea di avere un compagno con figlio…era un po’ troppo.
Incominciò il periodo più buio della mia vita. LUI non c’era più. Mi sentivo solo, abbandonato, in colpa, maledettamente in colpa con me stesso, nei confronti di mia moglie, di mio figlio, di chi voglio bene e per quello che avevo fatto. Seguono notti insonni guardando nel nulla di una televisione accesa a chiedermi “Cosa ti sta succedendo?”. Vengono a galla vecchi ricordi che alimentano altri dubbi: “Chi sono? Perché mi sono innamorato di un uomo?“. Le certezze di una vita, il mondo “fuori” che si stava sgretolando, ma pure io dentro di me sentivo sempre più forte il senso di arrivare all’implosione. E l’implosione puntualmente arrivò: a distanza di tempo posso anche dire che serviva, perché io testardo e trascurando qualsiasi segnale fisico (avevo perso peso) o mentale andavo avanti, incurante di me stesso: ma andavo avanti…e alla fine sono crollato. Uno stop imposto dal corpo, anche perché la testa non stava ascoltando. Ero “disallineato”. E questo stop alla fine è stato anche la mia fortuna.
Ero a un bivio: volevo farla finita e saltare giù per quel burrone della mia vita di merda, approssimativamente 100 m di caduta libera. Quanto basta per spiccare il volo. O spegnersi, punti di vista, ma senza alcun dubbio la mia agonia interiore si sarebbe spenta nello stesso momento. Perché era quella che non riuscivo più a controllare. Alla fine sono ancora qui che scrivo, contento che l’istinto primordiale del vivere e voler vivere ha preso in quel drammatico momento il sopravvento. Non so come sono arrivato al pronto soccorso: ricordo solo che in lacrime condivisi per la prima volta a un estraneo, anche se era medico, la mia situazione, la mia paura di vivere e la mia grande preoccupazione: “Dottore, ho anche un altro problema: mi sa proprio che sono gay… e mia moglie non lo sa!”. Per quanto assurdo potrà sembrare: per me era una liberazione dirlo! Tenermi dentro tutto questo era diventato un peso, un fardello troppo imponente e ingombrante da portare da solo, in questo modo è in questo mondo!
Poter condividere con qualcuno era semplicemente un piccolo sollievo. Vero, alcune volte ero già lì per lì a raccontarlo a qualche mio amico. Ma alla fine ho sempre desistito: un po per diffidenza innata un po per paura di essere giudicato… ma sopratutto essere additato come “diverso”, come “rovina famiglia”… come egoista che pensa solo a se stesso. Ma se io sto male con me stesso: come faccio a stare bene con gli altri?
Inizio un percorso per me nuovo, duro, difficile ma soprattutto pieno di pianti e sfoghi. I primi passi erano insicuri, talvolta anche goffi, ma almeno alle spalle avevo un supporto psicologico. E la terapia in quel momento mi dava quel minimo di sicurezza e confidenza in me stesso che avevo bisogno per andare avanti. Ero uscito dall’autostrada, fermo al casello e incominciai sempre meno a voler rientrare. Presi sempre più la consapevolezza che non era possibile: dovevo trovare me stesso, essere sincero con me stesso, imparare ad ascoltarmi di più e d’imbucare una strada che non esiste, una strada serrata percorsa da nessun altro.
Avviato un mio personale percorso si avvicina anche il momento di mettere le carte in tavola e parlare apertamente con mia moglie. Intanto la crisi matrimoniale era vissuta apertamente e anche in casa io mi ero già abituato al fatto di dormire sul divano. Mia moglie era li, sconcertata e arrabbiata. Mi capiva sempre di meno. Tranne che in me era in atto un cambiamento. E semplicemente ne era contrariata. Sfido io: per una vita l’avevo assecondata e sostenuta in tutto e adesso stavo tagliando fuori dei spazi per me dicendo a volte anche “No”. Perché questo era parte dei motivi per il passo che andavo a fare, l’altra era che avevo iniziato ad accettare per me stesso la mia omosessualità, di vergognarmi un po’ meno dei miei sentimenti ed emozioni. La tensione all’interno della coppia continuò… anzi, era alle stelle. Quindi nel mio caso non era neanche questione di trovare un momento sereno, di studiare un modo appropriato.
Mi ero già confrontato di questa con mio psicologo. E dopo aver iniziato ad accettare la mia nuova, o meglio ritrovata, identità feci il secondo passo altrettanto difficile, ma determinato: avrei detto a mia moglie cosa mi succedeva, tutto. Ero stanco…stanco di litigare…e sopratutto stanco di fingere.
Il fatidico momento arrivò. Non come me lo ero immaginato e ripetuto più volte come esercizio nella testa, ma comunque arrivò. Eravamo nel bel mezzo di una discussione, per “soliti” motivi – un crescendo di banalità di vita quotidiana vista da tutti due con occhiali neri. Ci fu un diverbio accesso e in mezzo a tante “parole dette in libertà” un certo momento mi uscirono le due fatidiche parole: “SONO GAY!“.
Bastarono a lasciare in sospeso qualsiasi altra parola. Il mondo cadde in silenzio, io che incrocio il suo sguardo a metà tra spavento, disgusto, incredulità totale, frustrazione e rabbia. Accettai in silenzio lo schiaffo. Respiro profondamente e inizio il mio racconto, cosa mi stava succedendo veramente, cosa stavo veramente elaborando con il mio psicologo, il mio punto di vista, le mie necessità in merito a una relazione che si era disgregata, indipendentemente dal fatto se mi piacciono gli uomini o no. E poi anche si: affettivamente parlando. Mi sento attratto da altri uomini e che per questi motivi non ero intenzionato a proseguire (almeno in questa forma) un rapporto durato quasi una vita sotto lo stesso tetto.
Lei era incredula, scioccata dalla mia confessione. Si arrabbiò ancora di più mettendo in discussione l’intero nostro rapporto. Di questo dubbio io ne soffrì tanto e per tanto tempo. Idem per il discorso “morale” che lei mi fece pesare oltre ogni limite. Alla fine riuscimmo ad accordarci almeno su una cosa: che a sto punto pure lei aveva bisogno di spazio e tempo per “digerire” questa mia verità. Feci l’unica cosa giusta: le valigie. Me ne andai a vivere per conto mio lasciando a casa moglie e figlio. Per mia scelta: non c’erano alternative. Rimanerci avrebbe solo significato altri litigi e non volevo che mio figlio ci andava di mezzo.
I primi tempi erano durissimi: avevo comunque da affrontare una intensa storia finita. Poi la solitudine e la necessita’ di dover gestire le cose pratiche della vita autonomamente. L’avvio della separazione: con tanto di mediatore e avvocati, il “litigare” per vedere il proprio figlio che secondo lei non merita un papà “finocchio”.
All’inizio la presi malissimo. Potevo rinunciare a tutte le cose del mondo ma non a mio figlio. Ero appena uscito dalla depressione. La paura di “perderlo” mi logorava. Ma anche li prezioso il supporto del mio terapeuta che con molta fatica ma con risultato riuscì a farmi ragionare e abituare a leggere le mie paure fino in fondo. Io sarò sempre suo papà e lui sempre mio figlio. Certi legami sono indissolubili. L’ho capito con fatica…mi ci è voluto tanto. L’importante per tutti due è sapere che uno c’è per l’altro. Anche se solo nei fine settimana. Non servono tante parole. Quando mi abbraccia, quando mi stringe così forte che mi manca l’aria e divento rosso in faccia mi parte un boato di felicità: capisco che lui sarà sempre il mio punto fermo così come io sono e sarò così per lui.
Ma dietro le quinte continua la separazione. Non solo legale, sopratutto emotiva. Con colpi bassi da entrambe le parti. È un gioco brutto e triste. Anzi togliamo la parola gioco. È la una situazione di divorzio e c’è chi ne soffre di più e chi di meno. C’è chi lo gestisce in un modo chi nell’altro. Così incominciai a capire frequentando sporadicamente un gruppo di sostegno per divorziati e separati. Perché dopo la teoria (psicologo e avvocato) avevo anche scoperto il mio bisogno di sapere come vivono altri nella mia situazione. Per capire meglio a cosa potevo andare incontro. A cosa dovevo stare attento. Ma si: c’era sempre “quel l’elemento” che mancava: sono marito, papà divorziato ma sono anche gay!
Mi sentivo due volte solo: come “single” e come condizione di vita. Localmente cercai tramite l’Arcigay di capire se veramente ero l’unico in Italia. Senza gran che di riscontro, ma forse il mio approccio era troppo timido e pauroso: io che entro nella “tana del lupo”? Ci volle tanto coraggio e tanta forza per sopraffare anche questi pregiudizi interiori.
…e poi? E poi il mio incontro con Rete Genitori Rainbow. Il ricordo del primo contatto. In un giorno che normalmente è festeggiato per rinnovare la propria promessa d’amore. E io invece li…abbandonato in una sera fredda d’inverno a domandarmi: “Possibile che io sono l’unico in questa condizione?”. Improvvisamente mi ricordai un spezzone visto su Rai 4, che parlava di tematiche LGBT. Viva l’immagine in me di un gruppo di genitori in festa con i propri figli in una domenica irradiata non solo dal sole, ma anche da tanta gioia. Il tutto incorniciato da alcune bandiere che sventolavano altrettanto allegramente nel vento sfoggiando un logo con due persone che sembrano abbracciarsi: una grigia, una arcobaleno e sotto la scritta: “Rete Genitori Rainbow”. Il ricordo mi fece sobbalzare.
Corsi a casa. Google insegna: dopo neanche uno minuto avevo trovato il sito. E dopo cinque secondi il forum. Anche perché in quel momento non ero interessato alla prima pagina ma di capire CHI ci sta dietro. Io insomma mi vedevo come l’omino grigio del logo. Chissà se l’omino arcobaleno era quello giusto, se avrebbe accolto me grigio. Si: perché ormai per me avevo capito cos’ ero. Ma la mia posizione nella società. L’X/Y/Z mi mancava. Avevo urgente bisogno di capire e sentirmi dire tre parole: come “NON SEI SOLO” o “NON SEI L’UNICO”.
E QUESTO mondo rainbow mi abbracciò: a braccia aperte, senza ma e perché. Senza pretese o richieste di qualcosa in cambio. Passo ore davanti al computer a leggere nel forum. Storie vere, reali. Storie simile alla mia ma con mille sfumature e con un unico denominatore: tutti con un passato da mamma o papà con figli da una precedente relazione etero. Andò tutto molto veloce e nell’arco di 48 ore ero già lì con Fabrizio al cellulare e anche con Stefano del gruppo genitori più vicino a me. Chiudendo gli occhi sento una mano sulla spalla: qualcuno che mi sorregge, qualcuno che sa di cosa parlo perché simile al proprio vissuto. Mi sentivo semplicemente compreso. …prima e dopo le chiamate mi partirono parecchi pianti liberatori.
Mi stavo rendendo conto di non essere l’unico e tanto meno da solo. Scontato per me che partecipare al gruppo di condivisione e sostegno era a sto punto più una necessità che una possibilità da prendere in considerazione.
Anonimo - Utente RGR