LA GENITORIALITA’ TRANSGENDER: TRA INVISIBILIZZAZIONE, VUOTI SEMANTICI E GIURIDICI

17 Ottobre 2023

Discorso di Egon Botteghi – Una giornata studio sulle Famiglie Queer – Mercoledì 11 ottobre 2023 -Università di Salerno

Buongiorno a tutte,

ringrazio di cuore le organizzatrici del convegno per avermi invitato a parlare di genitorialità delle persone transgender perché ogni occasione per parlare pubblicamente di questo argomento è veramente preziosa.

Mi chiamo Egon Botteghi, sono referente per la genitorialità trans* dell’associazione Rete Genitori Rainbow e lavoro presso il Centro Antidiscrimazione per persone LGBTQIA+ L’Approdo di Livorno.

Faccio coming iut come persona trans* e come genitore di un fglio ed una figlia adolescenti (18 e 15 anni).

Sono  co-curatore del libretto “Trans con figl3. Suggerimenti per (futr3) genitori trans* e loro alleat3” pubblicato in collaborazione con varie associazioni trans* italiane e liberamente scaricabile sui siti di queste associazioni, come per esempio Rete Genitori Rainbow. Il libretto è la prima pubblicazione in lingua italiana di questo tipo ed è stato pubblicato nel marzo scorso, suscitando anche varie polemiche a livello politico.

Anche per questo con  le organizzatrici del convegno (io uso il femminile sovraesteso) abbiamo individuato 3 grandi temi che accompagnano ed hanno accompagnato l’esperienza della genitorilaità trans:

l’invisibilizzazione, i vuoti semantici e i vuoti giuridici.

L’invisibilizzazione è stata sicuramente una grande arma contro le persone trans* e la loro genitorialità e il loro possibile desiderio di diventare genitori, perché questa invisibilizzazione nasce da un vero e proprio ostracismo e reazioni di disgusto nei confronti dei genitori trans*.

Infatti nonostante una mole di evidenze che ci dicono il contrario è ancora molto diffuso il preconcetto secondo cui il transgenderismo non sia conciliabile con la genitorialità ed il nostro paese è, rispetto ad altri, culturalmente e giuridicamente più indietro rispetto a  questo tema.

Nella seconda indagine LGBTI dell’Agenzia dell’Unione Europea per i diritti fondamentali (FRA- Fundamental rights agency) nel 2019, dalle 19.445 risposte raccolte tra le persone trans*, è emerso che il 19% era genitore di almeno un bambino.

Ma già molto prima, nel 1998, lo psichiatra Domenico Di Ceglie attestava che nelle cliniche inglesi specializzate nei percorsi di affermazione di genere, un terzo dei richiedenti avesse figl3.

Come scriveva Lorenzo Petri nel 2013, in quella che forse è stata la prima ricerca italiana sulla genitorialità delle persone trans* nel nostro paese, per lungo tempo i clinici hanno pensato che il transgenderismo fosse una condizione incompatibile con l’essere genitori e ritenevano impensabile che una persona trans* potesse avere un progetto di genitorialità. Se una persona era diventata genitore prima del percorso di affermazione di genere, consigliavano alla persona di allontanarsi dai figl3 e di ricostruirsi una vita altrove.

Sulla genitorialità delle persone trans* gravavano infatti dei pesantissimi pregiudizi, come quello che i figl3 non si sarebbero adattati alla transizione del genitore e che sarebbero stati in pericolo di sviluppare dei problemi psichici importanti, che sarebbero stati confusi rispetto alla propria identità di genere e che le persone, transizionando, perdessero le loro capacità genitoriali. Era poi ritenuto impensabile che una persona trans* volesse utiliizzare il proprio corpo sessuato per diventare genitore.

Questi assunti sono stati poi indagati da ricerche successive (poche rispetto alle ricerche condotte invece sulla genitorialità delle persone omosessuali), che hanno dimostrato come questi assunti fossero dei puri pregiudizi transnegativi.

Eppure questi assunti sono stati utilizzati per giustificare le prime sentenze che in Italia hanno riguardato genitori trans*,  a cui fu tolta quella che allora si chiamava “patria potestà” e sono, a mio avviso, il reale sottotesto delle interpretazioni normative che hanno regolato per lungo tempo i percorsi di affermazioni; ad esempio in Italia, fino al 2015, si prevedeva la sterilizzazione forzata delle persone trans* che richiedevano la rettifica dei documenti.

I genitori trans* facevano e fanno paura perché sono nella posizione di problematizzare i costrutti tradizionali legati alla maternità e alla paternità, alle idee associate a madre e padre.

Come suggeriscono anche Masullo e Coppola nel loro libro “Affettività invisibili” questa “disattenzione” sulla genitorialità trans* può essere legata al fatto di avere associato per molto tempo la condizione transgender agli ambiti della devianza e della patologia, che in qualche modo comprometteva o rendeva incompatibile il desiderio di formare una famiglia e questa mancanza di conoscenza, sempre per citare Petri, ha facilitato il radicamento di stereotipi e fraintendimenti, rafforzando così il circolo vizioso di stigmatizzazione.

Eppure, fin dalla penultima versione dei SOC, gli standards of care pubblicati dal WPATH, nel 2012 , si raccomandava ai/alle professionisti/te che prendevano in carico persone trans* che volessero intraprendere un percorso di affermazione di genere, di parlare con i/le propri/e assistiti/e dei loro progetti di genitorialità e spiegare le conseguenze di ogni intervento medico sulla futura fertilità.

Eppure questo, come detto, non è stato fatto in Italia fino a tempi recenti.

Ricordo ad esempio che nel 2015, a seguito di una formazione che tenni sulla genitorialità trans* presso un centro in cui si effettuavano percorsi di transizione, fui avvicinato da un gruppo di giovani persone trans* che erano già in lista presso un ospedale pubblico per eseguire l’isterectomia, che mi ringraziarono perché nessuno gli aveva mai parlato di questo argomento fino a quel momento.

L’isterectomia era infatti allora ancora obbligatoria per gli uomini trans* che volevano rettificare i documenti al maschile e comunque, anche in seguito, era consigliata dai medici sulla base della falsa informazione che il testosterone avrebbe sicuramente sviluppato la policistosi ovarica, cosa che non è mai stata ancora dimostrata per certo nella letteratura scientifica.

Importante per tentare di uscire da questo circolo di invisibilizzazione/stigmatizzazione intorno ai diritti riproduttivi delle persone trans* è stato l’emergere della voce dei genitori trans* stessi, che è una storia ancora piuttosto recente in Italia.

Il primo convegno infatti organizzato da una associazione LGBTQIA+ sull’argomento risale al 2012, al convegno organizzato a Genova da Rete Genitori Rainbow.

Quella fu anche una delle prime occasioni per alcuni genitori trans* di mettersi in rete, di creare una iniziale rete informale dove poter (attraverso mail, telefonate, incontri in presenza) ricevere e dare sostegno e confrontarsi sulle loro difficoltà e modalità di affrontarle e per dimostrare che i genitori trans* esistevano anche in Italia e che non erano così pochi come si era pensato sino ad allora.

Da lì è poi nato per esempio l’impegno di Rete Genitori Rainbow di dichiarare esplicitamente un proprio focus specifico sulla genitorialità trans*, facilitato forse anche dal fatto che,  per come era concepita la legge  con l’allora obbligatorietà alla sterilizzazione, i genitori trans* ricadevano nel focus generale dell’associazione, cioè persone LGBTQ che avessero avuti figl3 in relazioni antecedenti il coming out e la transizione.

Successivamente all’interno dell’associazione è nato un gruppo di auto mutuo aiuto specifico per genitori transgender, che si riunisce online una volta al mese e che è ancora un unicum in Italia.

Proprio per uscire dall’invisibilizzazione e dalla mancanza cronica di strumenti e informazioni sul tema in italiano, l’associazione dedica una parte specifica del suo sito alla genitorialità trans*, dove vengono caricate le risorse che potrebbero essere utili sia ai genitori trans* sia alle persone che potrebbero incontrare tale tipologia di genitori nella propria professione.

All’interno del gruppo di auto mutuo aiuto si è creato un gruppo di lavoro di ricerca e traduzione da altre lingue di questi materiali informativi di cui il libretto citato inizialmente è un esempio importante.

Le limitazioni infatti alla possibilità di diventare genitori biologici per le persone trans* anche a percorso di affermazioni di genere avviato non sono solo normativi ma anche culturali. Non c’è per esempio nessuna legge che impedisca ad un uomo trans* in età fertile e non sterilizzato di portare avanti una gravidanza ma il contesto culturale italiano è ancora così impreparato ad una tale evenienza da costituire una enorme barriera per un progetto genitoriale di questo tipo.

Vuoti semantici

Per iniziare a parlare del secondo tema, quello dei vuoti semantici, riprendiamo proprio l’esempio di un uomo trans* che voglia portare avanti una gravidanza.

Nel nostro paese tale persona si troverebbe nel vuoti semantico più assoluto.

Tutto il percorso legato alla nascita, tutti i reparti di ginecologia e i consultori sono rigidamente e costituzionalmente pensati per le donne cisgender (ed eterosessuali), tutto è rosa, tutto è femminile.

Quale spazio potrebbe trovare un uomo trans* in tale contesto totalmente imprevisto per lui? Come potrà essere accolto, seguito, nominato e come potrà usufruire di questi spazi essenziali per lui e il nascituro in sicurezza?

Anche il linguaggio con cui comunemente, durante le viste, i/le medici/che si riferiscono a certe parti del corpo, come il seno, l’utero, etc, potrebbe dover essere ridefinito in accordo con un paziente trans*, scegliendo parole che non lo mettano a disagio. Attenzione, questo non vuol dire che le donne cisgender non possano più parlare di seno, o di utero o di vagina e che tutto vada neutralizzato, fino a fare scomparire il corpo femminile. Vuol dire solo che bisogna essere coscienti, sopratutto da parte di certe professionalità, che esistono persone che definiscono diversamente alcune parti del loro corpo sessuato. Ad esempio ci sono uomini trans* che hanno allattato che hanno preferito parlare di allattamento al petto piuttosto che al seno.

Altra informazione semantica basica sarebbe quella di chiedere alla persona trans* che si rivolga ai servizi sanitari come vuole essere chiamata e quali pronomi usi, non desumendo quindi il genere dai genitali.

Così come nell’incontro con i/le pediatri/e, questi medici/che dovrebbero sapere che uno dei genitori potrebbe essere transgender e quindi non dare per scontato l’appartenenza al genere di un genitore in base a caratteristiche fisiche o a documenti di riconoscimento.

Io per esempio, quando portavo i miei figli piccoli dal pediatra, nonostante avessi già avviato il percorso di transizione, finivo sempre per essere “la signora”.

I genitori trans* hanno difficoltà con le parole (al pari di quelli in coppia same sex) anche nelle modulistiche che si trovano a compilare  per i propri figli, ad esempio per le scuole, per le attività, sportive, etc, in quanto spesso c’è spazio solo per “madre” e “padre” e il genitore trans* ha difficoltà nel collocarsi, sia per una questione di propria percezione sia per come viene letto e percepito dall’esterno.

Io per esempio vengo sempre apostrofato quando compilo il campo “madre” perché pensano che sia il padre che sta sbagliando riga.

E quando andai a fare la prima carta di identità a mia figlia, dovetti ingaggiare una lotta con l’impiegata dell’anagrafe per farle capire che doveva mettere il mio nome e il mio codice fiscale maschile nel campo “madre” (grazie al decreto Salvini che aveva introdotto l’obbligo di scrivere Padre e Madre sulla carta d’identità dei minorenni) e che sì, mia figlia aveva due genitori con documento maschile.

Questo  campo semantico di “madre” e padre” è un campo a cui la nostra cultura è affezionatissima e da qui secondo me nasce una  delle radici della paura verso i genitori trans*, perché questi genitori possono risemantizzare i nomi familiari di “mamma”, “papà”, “padre”, “madre”, etc

Quando un genitore transiziona, come verrà chiamato/a dai/lle figl3? Questa è una domanda quasi ossessiva, di cui ho perso  il conto delle volte in cui mi è stata posta.

La mia risposta è che i miei figl3 mi chiamano “mamma”, ma ci sono tantissime possibilità, che sono peculiari per ogni famiglia.

C’è chi, come nel mio caso, mantiene il nome genitoriale allineato al sesso assegnato alla nascita, chi sceglie quello allineato all’identità di genere percepita, chi sceglie un nuovo nome familiare inventato in seno alla famiglia, chi un soprannome, chi il nome proprio. Queste scelte, personali di ogni famiglia con un genitore trans*, dipendono da come il genitore e i/le figl3 si sentono a proprio agio, sia nel contesto privato che in quello pubblico ( e non è detto che la soluzione sia la stessa nei due contesti) e di solito nasce da un confronto tra genitori e figl3.

Anche nel caso che una persona sia diventato genitore a transizione avvenuta, la scelta di come farsi chiamare varia da persona a persona, da famiglia a famiglia.

Da un punto di vista giuridico invece, e così affrontiamo l’ultimo tema dei vuoti giuridici, in Italia una persona che partorisce sarà sempre indicata come madre nel certificato originale di nascita del/la neonato/ta, anche nel caso che abbia già effettuato la rettifica anagrafica. Chi partorisce è infatti (in Italia ma anche nella maggior parte dei paesi europei) sempre madre.

Nel caso invece in cui la rettifica anagrafica intervenga quando i/le figl3 sono già nat3, una delle procedure possibili, e quella al momento consigliata, è che venga fatta una annotazione anche nel certificato originale di nascita dei/lle figl3.

Ma questa è appunto una interpretazione e può darsi anche il caso anche di un genitore a cui questa annotazione non è stata fatta, rendendo un domani più complicato la dichiarazione di un figlio circa l’identità dei genitori.

Il problema delle interpretazioni a macchia di leopardo sulle procedure riguardanti le persone trans* è un problema che si è sempre posto, sin dall’inizio della legge 164, dando origine a diseguaglianze di trattamento da un tribunale a un altro, da un giudice ad un altro. Un bel problema di vuoto giuridico.

I vuoti giuridici intervengono anche nel caso di una persona trans* che voglia avere un figlio biologico attraverso un percorso di procreazione medicalmente assistita.

Innanzitutto, se una persona trans* ha conservato i propri gameti, una volta avvenuta la rettifica anagrafica, non si sa più a chi appartengono questi gameti e se la persona potrà utilizzarli.

E poi ci sono tutte le limitazioni della nostra legge 40, le stesse che impattano su una coppia same sex.

Per questo le persone trans* si rivolgono a cliniche estere, come le coppie same sex.

La stessa cosa vale  per la legge 184 sull’adozione.

Un altro vuoto giuridico che impatta sulla vita delle famiglie con un genitore trans* riguarda lo scioglimento del matrimonio a seguito della rettifica anagrafica. Non esistendo il matrimonio same sex, la coppia non può più rimanere sposata e ci sono diversi genitori trans* che preferiscono non rettificare i propri documenti (con tutte le difficoltà del caso) piuttosto che non essere più sposate/ti alla propria moglie o al proprio marito.

Tra l’altro la legge sulle unioni civili in Italia nasce anche per rispondere al quesito della Corte Costituzionale  sul caso Bernaroli, sentenza n° 170 del 2014.

Questa persona trans* ha infatti portato fino al massimo grado di giudizio il suo caso di persona trans* sposata che non voleva vedere sciogliere di ufficio il matrimonio con sua moglie nel momento in cui era avvenuto il cambio anagrafico.

La corte si era espressa ravvedendo proprio un vuoto giuridico ed esortando il legislatore a porvi rimedio:

Bernaroli, in quanto donna, non poteva rimanere sposata a sua moglie perché il matrimonio tra persone dello stesso sesso non è previsto nel nostro ordinamento e tuttavia lo stato non poteva annullare il legame contratto tra due persone senza la volontà delle persone stesse. Bisognava per lo meno prevedere un istituto alternativo.

E così siamo arrivati alle unioni civili che però, non essendo equiparate al matrimonio, non sempre vengono scelte dai genitori trans* sposati, che continuano a lottare contro i vuoti giuridici di un sistema normativo binario ed eterocentrato.

Articoli correlati: